Ribaltare il razzismo con Universo Parallelo: il paradigma del privilegio di Nogaye Ndiaye
- Redazione
- 11 ott
- Tempo di lettura: 5 min
di Federica Mastroforti
“Siamo sempre lo straniero di qualcun altro. Imparare a vivere insieme è lottare contro il razzismo.” diceva Tahar Ben Jelloun, scrittore, poeta e saggista marocchino con cittadinanza francese, e forse, non può che essere così.
In occasione di Foligno Libri 2025, ‘Restiamo Umani, al Circolo Arci Subasio è stato presentato il libro “Universo Parallelo: paradigma di un privilegio” di Nogaye Ndiaye, autrice di origini senegalesi, nata e cresciuta in Italia, in provincia di Milano. Dottoressa in giurisprudenza, Nogaye oggi è un'attivista femminista e antirazzista attraverso la pagina Instagram Le regole del diritto perfetto. Nel 2023 esce il suo primo saggio per HarperCollins: Fortunatamente nera. Il risveglio di una mente colonizzata.
Universo parallelo non è solo un libro. È un invito. Un modo per prendere coscienza, finalmente, di qualcosa che molti scelgono di non vedere. E per farlo, parte da una domanda semplice e spiazzante: e se succedesse a te?
Un punto di vista ribaltato quello che ci propone Nogaye, in cui è Martina, persona bianca ad essere vittima di episodi reali di razzismo che inquinano e rendono insopportabile la realtà di ogni giorno. Storie di vita vissuta dall’autrice o da conoscenti che portano il lettore nel ‘Multiverso’ al contrario, permettendogli di mettersi nei panni dell’altro, capovolgendo la prospettiva per raccontare il razzismo in modo nuovo, diretto, e necessario.
La protagonista del libro, Martina, è una donna bianca che si muove in un mondo speculare al nostro, dove le regole sociali sono le stesse, ma il potere dello sguardo – e del pregiudizio – è completamente ribaltato. Un espediente narrativo potente, che non serve solo a raccontare una storia, ma a rendere visibile l’invisibile: il razzismo strutturale e quotidiano che ancora oggi attraversa le vite di tante persone.
“Ho iniziato a immaginare una serie di episodi social in cui raccontavo le micro-aggressioni, ma al contrario. Una specie di reality capovolto, dove finalmente si può toccare con mano l’assurdità di certi comportamenti”, ha raccontato l’autrice durante la presentazione del libro. “Poi ho capito che meritava qualcosa di più. Doveva diventare un libro per aiutare a comprendere meglio.”
“Questo libro è nato da un esaurimento nervoso” - racconta, con un sorriso amaro, Nogaye. Un’espressione che dice molto della fatica accumulata nel dover sempre spiegare, sempre dimostrare, sempre giustificare. Universo parallelo nasce anche come risposta a ciò che è accaduto dopo il suo primo libro: molti, racconta, sembravano dubitare che le storie fossero vere.
“Mi sono resa conto che dovevo convincere la gente che non stavo esagerando. Come se non bastasse essere nera e raccontare quello che ho vissuto. Dovevo essere preparata, esperta, rassicurante. Sempre.”
Da questa frustrazione prende forma un progetto narrativo che, più che raccontare un personaggio, rivela un meccanismo. Perché Martina non è solo Martina: è una lente attraverso cui chi legge può finalmente vedere sé stesso.
Dentro Universo parallelo c’è anche molto dell’autrice. A partire dal nome: Nogaye. Un nome che, da bambina, aveva deciso di mettere da parte scegliendo di farsi chiamare Noghina – più facile, più “italiano”. Un gesto apparentemente piccolo, ma che racconta un intero processo di perdita di identità, di origini, di unicità.
“Mi prendevano in giro, lo storpiavano. Così ho scelto un nome più vicino a quello degli altri, uno che suonava proprio come ‘Martina’. L’ho fatto per sopravvivere” racconta. Solo anni dopo, durante un viaggio in Senegal, dove “si canta la storia dei nomi”, ha ritrovato il significato profondo di quella parola, e ha deciso di riprendersela. “Ho chiesto anche ai miei genitori di tornare a chiamarmi Nogaye. È stato il mio modo per fare pace con me stessa, con le mie radici.”
Un gesto che parla di molte esperienze simili: di chi cresce con il bisogno di cancellare una parte di sé per sentirsi incluso. E che finisce per sentirsi straniero ovunque, dentro e fuori ma soprattutto, a sé stesso.
Al centro del libro, e della riflessione portata avanti da Ndiaye c’è la consapevolezza che il razzismo non ha bisogno di cattiveria per esistere, ma solo di abitudine. “Siamo tutti razzisti, perché siamo cresciuti dentro una cultura che lo è. Anche chi non ha intenzioni negative perpetua comportamenti razzisti senza accorgersene.”
L’autrice invita a un esercizio difficile ma necessario: decolonizzare la propria mente, cioè imparare ad ascoltare senza difendersi, senza mettere al centro le proprie emozioni quando si parla di razzismo. “Bisogna smettere di interrompere le conversazioni appena diventano scomode. È lì che si cresce.” Un percorso che richiede fatica da entrambe le parti: “È doloroso, per chi subisce e per chi inizia a vedere. Ma è l’unico modo per uscirne.”
Oltre alla scrittura, Nogaye Ndiaye lavora nelle scuole, dove porta avanti progetti educativi che partono proprio dal linguaggio e dalla consapevolezza. Il suo approccio è semplice e radicale: insegnare il rispetto, prima ancora dell’antirazzismo. “Quando ribaltiamo le prospettive, si capisce che certi comportamenti tra bianchi non accadrebbero mai. Basta mettersi nei panni dell’altro per vederlo. Io cerco di farlo, con i ragazzi e le ragazze, ogni giorno.”

E allora, come se ne esce? Ai microfoni di About Perugia l’autrice ha risposto, dandoci anche qualche spunto interessante, per il quale la ringraziamo.
Da molti anni ormai si parla di 'inclusione' e 'integrazione', sottintendendo qualcosa che è evidentemente percepito già come 'separato'. Qual è la tua opinione al riguardo? Esiste un nuovo concetto di 'inclusione' pronto a sostituire il vecchio?
Non credo che “inclusione” o “integrazione” siano termini adeguati o efficaci. Nel nostro sistema non esiste vera integrazione, ma assimilazione: si accoglie solo chi è disposto a conformarsi a modelli sociali, culturali e identitari già dati, cancellando le differenze invece di valorizzarle. “Inclusione” poi è una parola che vuol dire tutto e niente, perché parte dal presupposto che alcune persone non appartengano di default, e che qualcuno debba “concedere” loro uno spazio.
Non credo serva un nuovo concetto, ma un processo collettivo e continuo di decostruzione e decolonizzazione: un lavoro condiviso che metta in discussione i privilegi, le gerarchie e le strutture di potere che rendono necessarie parole come “inclusione” o “integrazione”. È necessario riconoscere come il linguaggio, le istituzioni e le pratiche sociali continuino a riprodurre disuguaglianze e forme di esclusione, spesso in modo sottile e normalizzato. Solo attraverso questa consapevolezza possiamo costruire spazi realmente plurali, dove la diversità non sia vista e percepita come la panacea di tutti i mali, ma riconosciuta come un valore aggiunto, un punto di partenza capace di unire e non dividere.
Consigli di lettura: due libri sul razzismo che hanno cambiato la tua vita e possono cambiare la nostra.
“I dannati delle Terra” di F. Fanon e “Il pensiero bianco” di Lilian Thuram.












